Durante gli ultimi 20 anni, diversi studi si sono occupati delle differenze di genere per quel che ci riguarda le manifestazioni cliniche e la prognosi della malattia coronarica.
I risultati di questi studi hanno dimostrato alcune importanti diversità correlate al sesso.
La stessa, tuttavia, rappresenta la maggiore tra le cause di morte in tutti i paesi occidentali. Basti pensare come negli USA ogni anno muoiano di CI almeno 250.000 donne ; 100.000 di queste prima del raggiungimento dell’età media di aspettativa di vita.
Nel 2010 l’ Insuffcienza Cardiaca è stata responsabile del 25% dei decessi nel mondo e di più del 50% nei paesi industrializzati.
I report dell’OMS relativo al 2015 mette in guardia sul fatto che la CI sia diventata, negli ultimi anni, la prima causa di morte anche in paesi come l’Argentina, Cile, Uruguay, Corea, Sri Lanka e Cuba.
Per gli USA i dati epidemiologici sono addirittura allarmanti quando si considerano le pazienti in post-menopausa: il rischio di una donna in post-menopausa di subire un evento cardiovascolare correlato sarebbe pari al 31% contro il 3% di essere colpita da un cancro della mammella o da una frattura di femore ; l’invalidità permanente correlata alla CI interesserebbe il 33% delle donne di età compresa tra 45 e 54 anni e ben il 55% delle pazienti ultrasessantenni.
Tale rischio sarebbe solo in parte da attribuire alla carenza estrogenica tipica della post-menopausa.
Una coronaropatia clinicamente manifesta sarebbe diagnosticata, nel range di età tra i 45 e 64 anni, in una donna su nove prima della menopausa e in una su tre dopo.
Anche in Italia i dati epidemiologici sono abbastanza drammatici e tutto ciò è poco rassicurante, nonostante però gli epidemiologi riconoscano che la patologia cerebro e cardiovascolare, come causa di morte, ha subito un rallentamento: ciò sarebbe dovuto sia agli interventi di prevenzione primaria e secondaria ma soprattutto ad una riduzione della mortalità nelle prime fasi dell’infarto del miocardio.
L’aspetto preoccupante che deve a nostro parere, indurre a meditazione la classe dei cardiologi, è il numero sempre più crescente di segnalazioni in letteratura, riguardanti: la generale sottostima per quel che riguarda la diagnosi di CI nella donna, la diagnosi in stato troppo avanzato di malattia o ancora di trattamento meno aggressivo rispetto a quello riservato al paziente maschio.
Preoccupante appare ancora un’apparente prognosi più severa nelle pazienti di sesso femminile rispetto ai maschi di pari età, ciò indicando chiaramente come differenze sesso-specifiche inciderebbero sostanzialmente sia sulla diagnosi sia sul trattamento della Patologia Cardiovascolare influenzando, in ultima analisi, la prognosi.
Possiamo ritenere dunque saggia la frase con la quale la dott.ssa P.Douglas chiuse un intervento sull’argomento “accurate and timely diagnosis of ischemic heart disease is a critical step in the care of women and represent the major challenge of physicians”.
Esistono, a nostro avviso, alcuni problemi principali che bisogna passare in rassegna per comprendere meglio il problema: l’eziopatogenesi della Patologia Cardiaca nella donna, la valutazione del dolore toracico, che pone il sospetto di coronaropatia, la penetranza diagnostica del test non invasivo che si intende usare per avallare ovvero respingere il sospetto diagnostico stesso e i bias che hanno creato idee confuse, con impatti diagnostici –terapeutici spesso inadeguati.
Studi anatomo-patologici dimostrano come nell’uomo, le placche ateromatose cominciano a comparire intorno all’età di 35 anni, sulle pareti arteriose, esse crescono in maniera proporzionale al livello sierico del colesterolo al numero delle sigarette fumate e raggiungono la “criticità” all’età dei 60-65.
Nelle donne invece, la presenza del periodo fertile (ricco in estrogeni) posticipa la data di comparsa della placca, che cresce in relazione alla storia di diabete e di ipertensione di cui è più spesso affetta la paziente di sesso femminile.
La criticità viene raggiunta all’età di 75-80 anni (15-20 anni dopo rispetto l’uomo).
Volendo esaminare se esistono differenze di genere nel peso e nella distribuzione dei fattori di rischio per arrivare a programmi di prevenzione mirata, si può asserire che quasi tutti i “classici” fattori di rischio sono simili nei due sessi, che forse esistono alcune differenze e si parla di alcuni nuovi fattori di rischio che avrebbero particolarmente impatto nella popolazione femminile anche perchè il controllo dei classici darebbe lo stesso esito nei due sessi.
Esistono alcune differenze sul diabete, ipertensione, attività fisica, HDL colesterolo e trigliceridi ma molto di più riguardo la percezione della malattia e sulle condizioni psico-sociali.
Esistono invece sicure differenze per quel che riguarda l’evento menopausa e sul suo antidoto unico e peculiare, la terapia estrogenica sostitutiva.
Riguardo ai dati sui fattori di rischio classici tranne che per l’ipertensione, si parla di dati osservazionali.
Il rischio relativo per il diabete nelle donne è da 3 a 7 volte maggiore, da Framingham risulterebbe che forse un basso valore di HDL ed elevato di trigliceridi è più importante nel sesso femminile e dallo studio Nurses’ Health emerge che il peso corporeo aggiustato per età e fumo aumenta di molto il rischio nelle donne.
(continua)
[Photo Credits womansday.com]