Introduzione
Sono quasi 14 milioni In Italia gli over 65enni, e di questi la metà (circa 7 milioni) sono over 75. L’Italia ha la popolazione più vecchia d’Europa, con il 22,8% del totale che ha più di 65 anni, a fronte del 20,3% della media dell’UE (dati Eurostat). Rispetto al 2010 gli over 65 sono cresciuti di circa 1,8 milioni di persone a fronte di un calo degli under 15 di quasi 400.000 unità e di una popolazione aumentata di 1,2 milioni. Tra le aree europee dove la percentuale di popolazione anziana è più alta si segnala la Liguria con il 28,5% di over 65.
Non trascurabile anche il dato sui centenari del nostro Paese: 14.804 nostri connazionali hanno raggiunto “quota 100”. Sono quelli registrati al 1° gennaio 2020 dall’Istat e il loro numero assoluto sta aumentando: nel 2019 erano 14.456. Riescono ad arrivare a 100 anni di vita 2,45 persone ogni 10mila abitanti.
Come interpretare questi dati: è un bene? È un male? Di sicuro è un bene, riflesso di un’ottima impalcatura sociale e di una cultura nazionale che ha ancora a cuore i propri anziani, di un eccellente servizio sanitario, di uno stile di vita ancora sano (…e su tutto non scordiamo il valore della dieta mediterranea) e di uno straordinario mosaico genetico.
Fragilità del soggetto anziano
Ma se Madre Natura è stata benevola e generosa con questo popolo adagiato sul Mediterraneo, il fatto di essere una popolazione ”vecchia” impone alcune considerazioni che si riverberano inevitabilmente sul piano sanitario e delle politiche sociali: il paziente anziano è ineludibilmente avviato al decline fisiologico sul piano neurologico, endocrino, immunitario (se vogliamo interpretare l’organismo umano come un sistema complesso neuro-immuno-endocrino – R. Ader 1980); è dunque un soggetto fragile* ed in ragione di questa fragilità spesso è un paziente con multimorbilità, cronico, politrattato.
Ora, la polifarmacolizzazione del paziente ha un aspetto gianico: se da una parte è l’artefice virtuosa della longevità degli Italiani, dall’altra è anche la causa della loro morbilità. Ed è lo specchio di un approccio medico di tipo riduzionistico che, se da una parte ha rappresentato il motore dei progressi della Medicina, dall’altra sta iniziando a mostrare anche i propri limiti. E l’enorme numero di farmaci che giornalmente un paziente anziano assume (lo vedremo tra poco) ne è la conseguenza. Ma in questi anni, stiamo assistendo ad un cambiamento della visione della Medicina che sta traslando da un’impostazione di tipo riduzionistico appunto ad una di tipo sistemico. La Medicina dei Sistemi è oggi insegnata nelle scuole di Medicina delle Università di tutto il mondo. Il suo cuore è la visione unitaria dell’organismo, interpretato come un network di networks interconnessi tra di loro (e non solo, interconnessi anche con l’ambiente – exposoma – e con gli altri essere viventi – interattoma). La declinazione terapeutica che deriva dal paradigma della Medicina dei Sistemi conduce ad un uso più giudizioso dei farmaci e, laddove possibile, alla loro razionalizzazione.
Alcune considerazioni aiuteranno a meglio comprendere questo aspetto:
- Gli anziani** rappresentano la fascia di popolazione maggiormente esposta ai rischi di interazioni tra farmaci e relative reazioni avverse, principalmente a causa delle alterazioni fisiologiche associate all’invecchiamento e ai loro effetti sulla risposta ai trattamenti farmacologici (stato di salute degli organi, attività dei sistemi enzimatici, alterazione dei parametri farmacocinetici/farmacodinamici, clearance renale, funzionalità epatica aumento dalla frazione libera di farmaco a causa dei bassi livelli di albumina circolante).
- Con l’aumentare dell’età si osserva un aumento della sensibilità ai farmaci e, in parallelo, una riduzione dei processi omeostatici di autoregolazione.
- Anche se invecchiamento non è sinonimo di malattia, la prevalenza di multi-morbilità e il consumo di farmaci aumentano inevitabilmente con l’avanzare dell’età. Recenti dati mostrano che il 55% riceve mediamente da 5 a 9 farmaci al giorno, e in particolare si stima che circa il 14% della popolazione anziana farebbe uso quotidiano addirittura di più di 10 farmaci.
La scelta di ricorrere ad una terapia complessa (politerapia) è spesso una conseguenza del tentativo, da parte del curante o dello specialista, di applicare a soggetti anziani le linee guida in vigore, non tenendo conto del fatto che esse derivano, nella quasi totalità dei casi, da studi clinici condotti su popolazioni di pazienti che poco o nulla hanno a che vedere con la popolazione “over 65”. Le evidenze ottenute compiendo studi su popolazioni che si possono definire “ideali” ovvero su soggetti relativamente giovani e nella maggior parte dei casi senza patologie concomitanti sono, in linea teorica, difficilmente traslabili tal quali su una popolazione di soggetti anziani con una o più patologie concomitanti.
Sicurezza, efficacia e rapporto rischi/benefici sono dunque variabili aleatorie la cui non corretta valutazione espone gli anziani alla comparsa di possibili interazioni tra farmaci o interferenze con le patologie del paziente. In sintesi, la prescrizione di farmaci studiati su popolazioni difformi da quella geriatrica espone l’anziano ad un aumento delle reazioni avverse, del rischio di ospedalizzazione e di mortalità (soprattutto se esposto alla somministrazione di cinque o più farmaci).
Non si dimentichi, per esempio, che con l’aumentare dell’età si riduce fino al 20% la concentrazione plasmatica delle albumine (probabilmente a causa di una minore funzionalità epatica) con un incremento della quota libera dei farmaci (con inevitabili ripercussioni negative per l’intero organismo).
In regime di politerapia si riscontrano con maggior frequenza le seguenti condizioni di rischio per l’anziano:
- Aumentato rischio di reazioni avverse da farmaco (ADR) e interazioni tra farmaci
- Esposizione a farmaci inappropriati
- Mancata prescrizione di farmaci utili
- Scarsa compliance verso la terapeutica
- Aumento del deficit funzionale e cognitivo
- Aumentato rischio di insorgenza di patologie tipicamente geriatriche (ad esempio: stato confusionale acuto, cadute/fratture, incontinenza, disturbi comportamentali, malnutrizione/malassorbimento)
- Aumentato rischio di ospedalizzazione
- Aumento della mortalità
- Aumento dei costi
Un concern particolare legato alla politerapia riguarda il capitolo delle interazioni farmaco-farmaco. Questa definizione lascia aperta la possibilità che gli effetti incogniti osservati possano avere sì valenza positiva (sinergismo o potenziamento dell’azione di uno o più farmaci) ma più probabilmente negativa (interferenze o inibizioni dell’effetto); l’attenzione, e la preoccupazione, del medico e del farmacologo si concentrano primariamente su quest’ultima eventualità e sul suo esito più serio: la comparsa di patologie iatrogene.
I pazienti più a rischio di interazioni sono i soggetti, di ogni età affetti, da insufficienza d’organo e gli anziani, che risentono delle modificazioni indotte dall’età sulle vie metaboliche sfruttate dai farmaci e che spesso sono in regime di politerapia.
Farmaci che sfruttano le medesime vie metaboliche (si pensi ad esempio a quanti farmaci sono metabolizzati via CYP 3A4) sono da ritenersi i più seri candidati per lo sviluppo di interazioni negative, seguiti dai medicinali aventi indice terapeutico basso, ossia una forbice tra effetto terapeutico e tossicità molto piccola.
Esiste numerosa letteratura scientifica in grado di sostenere come il rischio di sviluppo di patologie iatrogene sia circa doppio nei pazienti anziani se confrontato con il dato di soggetti più giovani.
Al di là della loro natura, il dato della frequenza delle potenziali interazioni, 6% per i pazienti anziani ambulatoriali e 53% per quelli istituzionalizzati o lungodegenti, è sintomo della maggiore fragilità dell’anziano ricoverato e presentante un elevato numero di patologie croniche; questi soggetti sono, purtroppo, i destinatari delle politerapie più complesse in assoluto. Come in un circolo vizioso, si evidenzia inoltre come il 5% dei ricoveri di pazienti anziani sia causato da eventi successivi interazioni tra farmaci. Numerose evidenze hanno dimostrato come le interazioni più frequentemente responsabili di ospedalizzazione (o con esito fatale) sono quelle in cui sono coinvolti i FANS, gli antiaggreganti piastrinici e gli anticoagulanti orali in combinazione tra loro.
Nuovi orizzonti
Purtroppo, il ricorso ai farmaci, già assai diffuso nelle diverse età della vita, diventa critico in vecchiaia; ad una certa età ci si ammala di più, ma dietro questo bisogno della cura a tutti i costi non c’è solo la mancata elaborazione di un processo morboso, esiste la convinzione che non ci siano limiti per la medicina moderna, affetta com’è da trionfalismo e che pertanto sia praticamente impossibile non trovare la terapia “giusta” in ogni situazione. Questo fenomeno ha sottoposto a diverse pressioni il SSN e la distribuzione gratuita di molti farmaci, ma ha reso solo più complicata la situazione, avendo garantito una più facile accessibilità al farmaco. Probabilmente la maggior parte degli anziani non è così avida di farmaci quanto lo sono i figli e i conoscenti dei pazienti, che li vogliono “sani a tutti i costi”, non economici si intende!
Né va dimenticato che una attenta sorveglianza andrebbe effettuata anche sulla aderenza del paziente alla terapia, già normalmente difficile, spesso ridotta nell’anziano per disattenzione, dimenticanza ma anche per la tendenza alla automedicazione o alla autosospensione della terapia, senza interpellare il parere del medico.
Il medico dal canto suo a volte prescrive anche con l’idea di aver fatto qualcosa di utile al paziente, anestetizzando talvolta un’ansia che è più sua che del malato: “questo farmaco a chi serve veramente, a me medico, per tacitare la coscienza, o al malato?”
Già negli anni ’80 Hollister sosteneva: “L’uso più o meno ampio di medicine nell’età avanzata dipende da quanto il medico è consapevole delle differenze che caratterizzano l’azione dei farmaci nell’anziano rispetto al giovane. È difficile commettere errori se i farmaci sono prescritti con cautela, se i pazienti e chiunque somministri loro i farmaci comprendono bene il loro uso e se il numero di sostanze prescritte viene tenuto in ogni momento il più basso possibile”. E comunque va sempre ricordato che il singolo individuo può rispondere in modo assolutamente diverso rispetto ad una normalità semplicemente statistica: le caratteristiche genetiche di ciascuno rispondono di una variabilità che va dal 20 al 95% degli effetti del farmaco. Le differenze interindividuali nella risposta ai farmaci sono dovute a varianti genetiche delle sequenze che codificano gli enzimi che metabolizzano, trasportano e legano i farmaci.
In sintesi, come affermava Ippocrate, “Primum non nocere”!
L’infiammazione cronica sistemica di basso grado: un killer silenzioso
Traslando da una visione riduzionista dell’organismo umano ad una sistemica si impone una riflessione quando si tratta il tema “paziente anziano, cronico, con multimorbilità, politrattato”:
- perché così tante differenti patologie?
- Esiste una “matrice” comune nella multimorbilità del paziente anziano?
- Quali sono i limiti della capacità di biorergolazione del paziente anziano?
Crediamo di poter affermare che un file rouge che unisce le diverse malattie dell’anziano esista e sia uno dei fenomeni più studiati dalla moderna Medicina: l’infiammazione e soprattutto quella forma subdola di essa definita low grade chronic (systemic) inflammation:
- nessuno dei Sistemi e degli Apparati ne è immune; patologie apparentemente non correlabili all’infiammazione, viceversa lo sono;
- in particolare, nel modello sociale occidentale, l’individuo è “sotto attacco” di stressor infiammatori; in parte è un fenomeno-processo fisiologico che si autoalimenta e progredisce;
- drammaticamente non esiste (…o forse sì) un trattamento farmacologico disegnato specificatamente per essa.
Nessuno dei Sistemi e degli Apparati ne è immune: nel 2011 BMJ pubblica un meraviglioso lavoro di McInnes et al. (McInnes IB, Schett G. N Engl J Med 2011;365:2205-2219) in cui si descrive mirabilmente il ruolo giocato dallo spreading delle citochine pro-infiammatorie (IL-6, TNF-alfa, IL-1) nella disseminazione sistemica della malattia infiammatoria originata in uno specifico locus . Non è forse quello che osserviamo nel paziente anziano? Non è forse questo il file rouge che collega malattie apparentemente non connesse tra di loro come artrosi, demenza, IBDs, sarcopenia, osteoporosi, depressione (guarda caso malattie che costituiscono una sorte dei “sindrome dell’anziano”)?
Patologie apparentemente non correlabili all’infiammazione, viceversa lo sono: si potrebbero citare molti esempi ma uno è, nella sua straordinarietà, paradigmatico: Infiammazione e depressione.
Nel 2016 Neurobiology of Stress pubblica l’interessante lavoro di Hodes G. E. et al (Hodes G. E. et al Integrating Interleukin-6 into depression diagnosis and treatment. Nuerobiology of Stress 4 (2016) 15-22) in cui gli scienziati del Mont Sinai di New York correlano IL-6 (marker principale di infiammazione cronica) e depressione. E’ una scoperta sensazionale che può cambiare l’approccio a questa malattia. Non sono gli anziani la fetta di popolazione con la massima prevalenza di depressione?
In particolare, nel modello sociale occidentale, l’individuo è “sotto attacco” da parte di stressor infiammatori: si potrebbe iniziare l’elenco dagli alterati modelli alimentari, per proseguire con sovrappeso e obesità (l’adipocita è una vera riserva di IL-6, TNF-alfa, PCR, leptina solo per citare le principali molecole pro-flogogene), polifarmacolizzazione, stress, per finire con il lifestyle scorretto come molto ben descritto dal lavoro di Myamoto Y. et al. in Brain, Behavior and Immunity nel 2013 in cui viene descritta la correlazione tra aumento dell’espressione di IL-6 e l’aumento dell’intensità di emozioni negative (non è forse l’anziano vittima di melanconia, solitudine, rimorsi, …?).
In parte è un fenomeno-processo fisiologico che si autoalimenta e progredisce: IL-6 aumenta nei soggetti sani dopo i 50 anni di vita e raggiunge valori elevati nella vecchiaia avanzata. L’incremento fisiologico di IL-6 è una conseguenza di un efficace adattamento agli stimoli infiammatori ma è anche la concausa ultima della morte, come ben descritto fa Franceschi (Franceschi et al. Inflamm-aging, an evolutionary perspective on immunosenescence. Annals New York Academy of Sciences 2000).
Drammaticamente non esiste (…o forse sì) un trattamento farmacologico disegnato specificatamente per essa: la farmacologia di sintesi antinfiammatoria ha disegnato fino ad oggi efficaci farmaci antinfiammatori per la patologia acuta ma non per quella cronica, anzi drammaticamente vengono usati cronicamente farmaci per l’episodio acuto con un aggravio sui fenomeni di drug burden.
Nuovi scenari con la Farmacologia Low Dose
Si pone dunque a questo punto una domanda: è possibile una prevenzione primaria (o secondaria) dei processi infiammatori cronici sistemici di basso grado e, di conseguenza, un efficace controllo del principale e trasversale fattore di rischio del paziente cronico, con multimorbilità, politrattato? In una parola del paziente anziano fragile?
Probabilmente sì, e la risposta viene ancora una volta da Madre Natura e dalle molecole segnale che guidano le funzioni del nostro Sistema Immunitario: alcune di esse sono deputate proprio al controllo delle condizioni infiammatorie croniche. La recente Ricerca in ambito farmacologico ha dimostrato come esse possano essere riprodotte sotto forma di farmaci e come questi, se allestiti con concentrazioni che mimano esattamente quelle fisiologiche (…si tratta di concentrazioni molto basse, nell’ambito del sub-nanomolare) possano rappresentare, in piena sicurerzza, una frontiera nuova ed intrigante nella prevenzione dei disturbi della terza età.
*- Fragilità dell’anziano, Il paradigma biomedico: Fried e Coll. (2004) hanno definito la fragilità come “una sindrome fisiologica caratterizzata dalla riduzione delle riserve funzionali e dalla diminuita resistenza agli “stressor” risultante dal declino cumulativo di sistemi fisiologici multipli che causano vulnerabilità e conseguenze avverse.
– Fragilità dell’anziano, Il paradigma bio-psico-sociale: Gobbens e Coll. (2010) definiscono la fragilità come “uno stato dinamico che colpisce un individuo che sperimenta perdite in uno o più domini funzionali (fisico, psichico, sociale), causate dall’influenza di più variabili che aumentano il rischio di risultati avversi per la salute”.
**Per definizione, soggetti con età pari o superiore a 65 anni in presenza di polipatologie, superiore a 75 se in condizioni di buona salute. Nel testo, con il termine anziano ci si riferirà, ove non specificato, al soggetto polipatologico over-65.