Benché non ci sia unanimità scientifica nella definizione del termine, quando si parla di “invecchiamento” un concetto condiviso è il fenomeno ad esso correlato che va sotto il nome di “sarcopenia”, lo stato patologico comprendente al contempo una diminuzione di massa e forza muscolari che riporta a problematiche cliniche talvolta gravissime.
La debolezza muscolare nell’anziano è associata a un rischio maggiore di caduta e a un deterioramento delle capacità funzionali, una realtà che se unità ad ulteriori complicazioni (vedi alla voce osteoporosi) può portare a esiti fatali, come sanno gli specialisti che si trovano a trattare fratture del femore in ultrasettantenni.
Un dato più “di nicchia” vede gli effetti di questo deterioramento inasprirsi nel genere femminile; essendo tuttavia la salute ossea direttamente collegabile al metabolismo degli ormoni androgeni, il dato non è sorprendente.
Ciò che invece accomuna i generi è il beneficio che l’attività fisica, e in questo caso ci riferiamo innanzitutto all’allenamento di potenza, è in grado di apportare su più versanti, riconosciuto dalla letteratura scientifica come “intervento sicuro ed efficace” per aumentare la forza (ricordo come la forza nella presa sia parametro direttamente collegabile alla longevità secondo i più recenti studi) e per migliorare le suddette capacità funzionali.
Un allenamento di potenza che, sempre secondo le ricerche (Lemmer et al. 2010), vede l’età come fattore di disparità tra gli adattamenti negli atleti, ma non il genere, in grado in ogni caso di portare incrementi di forza sostanziali e mantenere gli adattamenti anche entro le 12 settimane di inattività, indipendentemente dalla condizione di partenza dell’atleta.
A spiegare la differenza negli adattamenti tra atleti giovani e anziani, una distanza che si fa netta se il detraining si protrae oltre le 12 settimane, è la perdita di numero e dimensioni delle fibre di tipo II, o quantomeno è ciò che gli esperti propongono sottolinenando come gli studi ad oggi presenti vedano nell’atrofia da disuso un dato non del tutto esplicativo riguardo il calo di forza in età avanzata.
Da tecnico, volendo arricchire una fredda trattazione divulgativa, mi sento di suggerire almeno un paio di sedute settimanali di allenamento di potenza adeguatamente prescritto e se possibile assistito a qualsiasi uomo o donna prossimo alla senilità; non c’è infatti un solo aspetto dal punto di vista della salute e dell’estetica del vostro corpo che non ne gioverà sensibilmente.
Altro argomento ampiamente discusso, spesso frainteso, e tuttavia sviluppato con un certo timore, è l’allenamento di forza nei bambini.
Fa male? Blocca la crescita? Può dare realmente risultati sui giovanissimi o presenta solo controindicazioni?
Queste ed altre sono alcune delle più frequenti domande dei genitori davanti alla perplessità che un sistema non ancora sedimentato può far sorgere (una vera preparazione atletica nel nostro paese è appannaggio del professionismo e molto di rado viene applicata nei centri sportivi).
Volendo dunque trascurare le modalità approssimative con cui viene prescritta l’attività ai ragazzi, riporto le parole di Feigenbaum secondo cui “la sicurezza e l’efficacia dell’allenamento della forza per i bambini continuano ad essere documentate”.
Sebbene si credesse che nella pre-adolescenza un insufficiente livello di circolazione di androgeni compromettesse il guadagno in termini di forza, esistono studi trentennali a contraddire tale ipotesi, e al momento è unanime il giudizio che vede il giovanissimo atleta migliorato nella prestazione aerobica, nella struttura fisica, nei profili lipidici del sangue e nelle abilità motorie dopo molte settimane di allenamento della forza.
Fin quando le linee guida vengono rispettate e in presenza di un supervisore competente, possiamo definire i programmi di allenamento della forza per i bambini importanti componenti nelle strategie di prevenzione degli infortuni e negli obiettivi della salute pubblica.
Agganciandoci a queste verità che definirei sistematiche, possiamo introdurre le ricerche e i dati esistenti sul decondizionamento nei pre-adolescenti – per chi non avesse letto il mio precedente articolo per decondizionamento si intende una temporanea o permanente riduzione degli stimoli fisici che possono verificarsi nella perdita dell’adattamento fisiologico e anatomico così come una riduzione nelle performance sportive – ritenendo che una maggiore consapevolezza sull’argomento porterebbe gli educatori, gli allenatori e i clinici a sviluppare esercizi di base, programmi di allenamenti stagionali ed esercizi di riabilitazione da infortuni.
Ricerche non recentissime, ma uniche nel loro genere hanno definito la forza ottenuta dai bambini in seguito ad un allenamento progressivo per volumi di lavoro nell’arco di 8 settimane e di un periodo decondizionante altrettanto longevo “transitorio e reversibile”, con risultati sorprendenti nell’età compresa tra i 7 e i 12 anni e direttamente proporzionale al volume di allenamento.
I ragazzi che hanno fatto uso di macchinari isotonici in questo periodo hanno registrato un aumento di forza del 53,5% nella leg-extension e del 41,1% nella chest press, non si è verificato alcun infortunio, la crescita verticale non è stata compromessa e i commenti dei genitori hanno sottolineato come ad un miglioramento nella forza si siano associate nette differenze nelle performance sportive così come una maggiore apertura mentale nei confronti del fitness.
Le stesse ricerche confermano l’età infantile come ottimale per lo sviluppo neurologico delle capacità motorie e della coordinazione; i fulminei miglioramenti, così come i rapidi decrementi sono da attribuirsi infatti a fattori nervosi, questione che rende ancora più delicata la scelta per una preparazione atletica adeguata.
L’argomento “preparazione atletica nei bambini” resta tuttavia molto più ampio, motivo per il quale mi prenderò prossimamente un intero articolo per discuterne.
Sommando i dati riportati (in particolare nel primo articolo) e strizzando l’occhio al professionismo, che è dove la ricerca fa il suo corso, possiamo arrivare alle seguenti conclusioni: i periodi di decondizionamento sono praticamente inevitabili, pertanto come possiamo impostare un regime di mantenimento della prestazione dell’atleta che sia ugualmente economico, deterministico e possibilmente utile non solo ai fini del recupero, ma addirittura integrato nella periodizzazione del programma dell’allenamento stesso? Ha senso parlare di decondizionamento strategico?
Potrebbe, se si trovasse il termine in corrispondenza del momento in cui i livelli di proteine contrattili IIX sono massimi. Dato che queste proteine muscolari, dalla natura ambivalente e tale da poterle definire un “serbatoio” per l’ipertrofia muscolare, impiegano 3-4 settimane per rigenerarsi, sarebbe necessario poco più di un mese.
Non si può ad ogni modo parlare di periodo ottimale in senso assoluto, benché l’influenza di genere ed età non presenti differenze significative costituisce comunque un universo di variabili sensibili e non trascurabili, che pongono quesiti in aggiunta ed un profilo totalmente differente nei prototipi d’atleta.
Puoi scrivere al Dr. Gianmaria Zazzaroni a gmzazzaroni@gmail.com
[Photo Credits scientific-training.it, aginganddisease.org, projectinvictus.it, cmdsport.com, ignite-magazine.com, youtube.com/watch?v=QVP3Fb-NMSc]